Bikaner è la seconda tappa del nostro tour in Rajasthan. La città risale al XV secolo e, grazie alla sua posizione strategica, fu un importante crocevia commerciale. Era uno degli ultimi luoghi abitati prima del grande deserto del Thar, e ancora oggi conserva il fascino di un’oasi culturale.
Abbiamo deciso di includerla nel nostro itinerario per due motivi: ammirare l’incredibile Junagarh Fort e avventurarci in un’esperienza fuori dall’ordinario (solo per cuori audaci), visitando il celebre tempio dei topi di Karni Mata.
Junagarh Fort: un palazzo fortificato nel cuore del Rajasthan
L’enorme Junagarh Fort si impone nel panorama cittadino. Anche chi ha lo sguardo distratto non può non notarlo.
Le mura del forte sono robuste, circondate da un fossato, con 37 bastioni difensivi e sette porte monumentali. L’ingresso principale, Karan Pol, è rivolto a est, ma oggi si accede dalla più scenografica Suraj Pol, la “porta del Sole”, realizzata in arenaria color oro.
Difese da elefanti e ricordi dolorosi
All’ingresso si notano due statue di elefanti con Mahout a simboleggiare le sentinelle dell’epoca. Le porte sono munite di spuntoni e borchie in ferro per impedire che venissero abbattute dagli elefanti nemici.
Sul muro della porta di Daulat Pol, si scorgono 41 impronte di mani scolpite nella pietra. Sono le mani delle mogli dei Maharaja di Bikaner, che si gettarono sulle pire funerarie dei mariti caduti in battaglia. Se non si conosce la storia, si potrebbe pensare a un semplice decoro. In realtà, quel muro custodisce dolore e sacrificio.
Un percorso tra strategia e bellezza
Dopo il biglietto, si accede a un primo cortile spoglio, chiuso dalle alte mura. Si sale lungo passaggi stretti, pensati per ostacolare eventuali assalitori. Se guardate bene il lastricato, noterete delle strisce in rilievo, utili per evitare che i cavalli scivolassero indietro in salita.
Quando si raggiunge il piano dei palazzi, la bellezza prende il sopravvento.
Fu Rai Singh, generale dell’esercito Mughal sotto l’imperatore Akbar, a volere questo complesso: non badò a spese. I palazzi si susseguono, collegati tra loro come in un labirinto, mostrando marmo bianco, arenaria rossa e intarsi finissimi che sembrano scolpiti con l’ago.
Architettura Mughal e dettagli sorprendenti
Un addetto spolvera con cura i decori. Quando ci vede, ci regala un sorriso e un saluto con la mano, orgoglioso della nostra attenzione.
Lo stile Mughal è evidente in ogni dettaglio: balconate e finestre finemente traforate per permettere la vista dall’interno, ma impedire quella dall’esterno. Un modo elegante per garantire la privacy delle donne dell’epoca.
Il Karan Mahal, una delle sale più spettacolari, custodisce il trono d’argento del Maharaja. Le pareti sono affrescate con lamine d’oro, creando un’atmosfera regale.




L’arte delle miniature: il cuore pulsante di Bikaner
Bikaner non è solo fortezza: è anche culla di una raffinata arte artigianale, ancora oggi molto viva. Tra le sue eccellenze spicca la produzione di miniature, piccoli dipinti realizzati con pennellate minuziose e pigmenti naturali.
Incontro con l’artista Shiv Swami
Per saperne di più, andiamo a trovare Shiv Swami, artista e discendente di una famiglia di pittori.
Ci accoglie con entusiasmo nel suo studio e inizia a mostrarci i suoi strumenti di lavoro. Tutti i colori sono naturali: ottenuti da minerali, pietre preziose, vegetali, conchiglie e metalli come oro e argento. Nessun pigmento chimico.
Guardando le opere attraverso una lente d’ingrandimento si possono ammirare le venature delle foglie, le pieghe dei vestiti, il trucco negli occhi delle figure. Un livello di dettaglio sorprendente.
Per sorprenderci, Shiv dipinge dal vivo sulle unghie di nostra figlia Giulia. Un gesto poetico e unico.
Se avete tempo, andate a trovarlo e vi ritroverete immersi in un mondo miniaturizzato fatto di calma, fermezza e pazienza. (Trovate tutte le informazioni qui)
Abbiamo molto apprezzato il tempo che scorre lento dello studio di Shiv, il perdersi tra i suoi dipinti e la vivacità dei colori mescolati dentro i gusci di conchiglia.



Il tempio dei topi di Karni Mata a Deshnoke: tra fede e shock culturale
Con la mente ancora rapita dalle miniature, lasciamo Bikaner per raggiungere Deshnoke, dove si trova uno dei templi più noti (e controversi) dell’India: il tempio di Karni Mata, conosciuto per la presenza di oltre 20.000 topi sacri.
La leggenda di Karni Mata
Secondo la tradizione, Karni Mata era una santa vissuta nel XIV secolo, considerata l’incarnazione della dea Durga. Quando suo figlio morì annegato, chiese al dio della morte di riportarlo in vita. Alla sua negazione, decretò che il suo popolo non sarebbe più morto, ma si sarebbe reincarnato in topi (kabas).
Da allora, i topi sono venerati e nutriti con latte e dolci, simboli viventi della reincarnazione.


La sfida culturale
Prima di partire, ero la più settica di tutti e avevo deciso che non sarei mai entrata. L’idea di camminare scalza tra i topi mi inquietava. Il resto della famiglia era più possibilista, tranne Giulia che aveva decretato che lei non sarebbe nemmeno scesa dalla macchina.
Avvicinandoci alla meta, il cuore palpita un poco, la sfida è tutta nella testa.
Ma appena parcheggiamo l’auto, un autobus scarica una scolaresca in divisa: le ragazze con gonne blu e camicette celesti, i capelli raccolti in trecce nere come la pece; i ragazzi in pantaloni e camicie coordinate.
Hanno più o meno l’età di Giulia e ci osservano incuriositi, ridendo tra loro. Nel piazzale antistante l’ingresso al tempio, mollano le scarpe dove capitano e vanno, senza indugi. Noi no!
Veniamo accompagnati in un luogo dove depositare le scarpe, ma, anche qui, ci sono topi che scorrazzano incuranti della presenza umana. Noi indossiamo i nostri “calzini da tempio”, comprati apposta, per poi essere buttati.
Giulia è riluttante perfino ad abbandonare le sue scarpe nuove, così le infiliamo con cura in un sacchetto, che possiamo chiudere.
Alla fine non ce la sentiamo di deludere le aspettative di Anand, il nostro autista, e ci apprestiamo ad entrare, con un po’ di ansia.
Se fossero gatti, il problema non si porrebbe, ma il topo, nella nostra cultura, rimane l’animale delle fogne, e a niente sembra valere adesso il tentativo della Disney di riabilitarlo (ve lo ricordate il simpaticissimo film Ratatouille?)
Abbiamo pochi appigli da servire ai nostri schemi mentali, perché il cervello non riconosce la situazione e la classifica come lontanissima dalla nostra confort-zone.
Ma il viaggio, per noi, è sempre stato desiderio di abbracciare le diversità culturali che popolano il mondo per comprenderle e in qualche caso imparare ad apprezzarle.


All’interno del tempio
La porta del Tempio di Karni Mata è in argento massiccio. Commissionata dal Maharaja Ganga Singh di Bikaner all’inizio del XX secolo, questa porta rappresenta un esempio straordinario dell’artigianato Rajput. Sono rappresentate scene della vita e delle leggende di Karni Mata. La facciata è in marmo con pareti rosa e gialle, tipiche dei templi induisti.
I topi sono ovunque, ma non aggressivi. Restano negli angoli, dove i pellegrini lanciano il cibo.
L’igiene qui sembra non essere prioritaria per nessuno: oltre ai topi ci sono piccioni che svolazzano e lasciano i loro resti un po’ ovunque. Nonostante questo gli indiani bevono alle fontanelle d’acqua del tempio, incuranti di tutto.
Oltre il cortile centrale, protetta da transenne e sorvegliata da sacerdoti locali, si trova la cella sacra del Tempio di Karni Mata. Conosciuta anche come sancta sanctorum, è il cuore spirituale del santuario e ospita l’immagine della dea Karni Mata e un fuoco votivo perenne, elemento centrale della devozione quotidiana.
Il fuoco sempre acceso (detto Akhand Jyoti) rappresenta la presenza eterna della divinità e la continuità della fede nel tempo. È tenuto vivo giorno e notte da sacerdoti e devoti che si alternano nella sua custodia.



La fortuna del topo bianco
Devi sapere che se si calpesta un topo, la tradizione prevede mala sorte e una multa.
Invece è una vera benedizione vedere il topo bianco, incarnazione di Karni Mata.
E indovina, lo vediamo!
Ad un certo punto, la scolaresca e molti altri fedeli si radunano tutti in un angolo e alzano i loro cellulari per immortalare qualcosa. Curiosi ci avviciniamo senza capire, ma loro con entusiasmo e un’infinità di dita puntate ci mostrano la rivelazione: il topo bianco si è mostrato.
Scattiamo anche noi qualche foto, più per abitudine che per devozione, e concediamo invece molti selfie, richiesti da ogni parte. Forse dopotutto la nostra presenza è per loro strana come i topi lo sono per noi, ma è un bel momento di comunione culturale, per quanto inaspettato.
Una riflessione finale
Alla fine, il nostro autista Anand – che ci ha convinti a entrare – confessa:
“Io venero i topi del tempio… ma se ne vedo uno a casa, gli lancio una ciabatta.”
Un’affermazione che ci fa sorridere e riflettere su quanto il contesto culturale influenzi profondamente i comportamenti.
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