Sette giorni in Nepal
Un naturale intreccio di vita e morte
[Tripper: Margherita]
Qui gli uomini vivono principalmente di agricoltura, lavorano la terra, vivono delle sue risorse.
Qui uomini e donne sono mani e braccia, preghiera, gesti, offerte. È un alternarsi di fisicità e anima, di paesaggi desolanti di povertà e miseria e di templi dove riti e cerimonie in onore del Dio Shiva e della dea Kali ci elevano oltre la condizione terrena.
Lavoro nei campi
A dorso di elefante
Qui il sacrificio non vale solo in senso astratto, non è solo sacrificio di tempo, energie, risorse mentali e affettive. È quanto mai reale, a tratti crudo e irrazionale, è sacrificio di animali, è sangue versato, è rinunciare all’infanzia, sono gli anni migliori di una bambina offerti a una divinità nell'incomprensibile osservanza di un'antica usanza.
Qui la vita assume un valore diverso, sembra valere meno, o forse decisamente di più per quei modi gentili, per la fiducia nel divenire, per la placida accettazione del presente. Vita e morte si intrecciano in una continuità inevitabile, naturale.
I corpi privi di vita non fanno paura, non suscitano ribrezzo, non c'è resistenza né timore nel toccarli, nel maneggiarli, nell'affidarli alle fiamme. Avvolti in un telo arancio, vengono depositati sulle pire del crematorio di Kathmandu, in una cerimonia pubblica, visibile a tutti, pronti per essere arsi, per consumarsi nel fuoco insieme a lacrime che non vediamo, forse trattenute, forse evaporate.
"È troppo forte per me" sono le parole di Sofia, sono le stesse mie, inespresse. È troppo forte, troppo difficile capire e sentirsi vicini a certe consuetudini, a quei rituali che appaiono tribali, e nello stesso tempo si è magneticamente attratti da quella diversità che si rivela a noi nella sua più autentica essenza.
Krishna ci racconta per sette giorni della sua terra, della sua religione, delle preghiere al tempio al mattino presto, della rigida divisione in caste, di cosa significhi studiare in Nepal, di come abbia imparato l'italiano alla scuola Dante Alighieri, di quale sia la vita media. Parla in modo neutro, equidistante e asettico tanto che sembra vivere al di fuori della sua nazione, in un luogo sospeso, narra del suo popolo e non lascia trapelare la sua piena appartenenza. Ci conquista per la sua delicatezza, per il suo modo pacato di reagire ad ogni situazione, per la capacità di anticipare e cogliere le più piccole esigenze. Si fa portatore della sua cultura, talvolta sorride della nostra, dimostrando di conoscerla e rispettarla. Krishna sa prendere le distanze per poi ricongiungersi appieno con la sua terra, e ci sorprende e ci incanta la naturalezza con la quale si sveste, si immerge in un'acqua che ha il colore del fango e poi sale a cavalcioni di un elefante. E ci fa sentire così l'amore e l'aderenza alla sua gente.
Sette giorni in Nepal. Kathmandu che reca ancora le ferite del terremoto, Bhaktapur e la bellezza delle sue costruzioni medievali, Patan e l'insensata tradizione della dea bambina, Pokhara e la maestosità dell'Annapurna alle sue spalle. Il Parco Nazionale del Chitwan, la giungla, il popolo dei Taru che danza e ci regala l'armonia di corpi che si muovono all'unisono.
Un viaggio che ha le fattezze di un sogno, che mescola sonno e veglia, che ha i colori caldi di un'alba e un tramonto, che restituisce la pienezza e il significato di parole come gratitudine e bellezza, in un tempo sospeso in cui l'immaginazione sembra reale e le cose viste e le persone incontrate un'impressione.

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